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Stefano Pastrovich “Io amo le sfide continue”

Incontro con Stefano Pastrovich, un giovane architetto con già diversi progetti illustri alle spalle e le idee ben chiare su come una barca debba essere costruita.

 È uno di quei giorni in cui da un momento all’altro potrebbe venire giù un nubifragio, visti i nuvoloni neri che ci sovrastano, o, al contrario uscire un tiepido inatteso sole, dato che all’orizzonte pare rischiarare. D’altronde chi conosce la Liguria sa bene come da queste parti il tempo cambi rapidamente faccia anche più volte nel giro di qualche ora. Siamo a Bogliasco, dove idealmente comincia la Riviera di Levante, ma in fondo a soli 20 minuti da Genova centro. Dalla Statale Aurelia che stiamo percorrendo, saliamo soltanto una manciata di metri e, come per magia, ci ritroviamo ad ammirare una incantevole vista mare. Miracoli della geomorfologia di questa terra, dura e scontrosa per certi versi, ma ricca per molti altri. Una terra di navigatori, esploratori, e…architetti. Ogni riferimento al genio di Renzo Piano non è puramente casuale.

Ma eccoci ora giunti ai piedi di una fascinosa villa d’epoca settecentesca. E’ qui che ha sede lo studio dell’Architetto Stefano Pastrovich. A fare inizialmente gli onori di casa la gentile e sorridente Silvia Grittani, insostituibile collaboratrice, responsabile della comunicazione e delle PR dello studio. E’ lei che dopo averci fatto accomodare, spalanca le ampie finestre per farci ammirare meglio il fascinoso panorama.Ne approfittiamo oltretutto per qualche salutare respiro a pieni polmoni. In effetti ci rendiamo in breve tempo conto di trovarci in una location davvero unica che pare quasi sospesa tra il cielo e il mare. La sede di lavoro ideale, diremmo, per un personaggio a cui piace andar per mare, ma anche volare. E non solo in senso figurato, per via della feconda creatività che gli è propria.

“All’età di 10 anni per hobby progettavo e costruivo modellini di alianti fatti per volare. E volavano, eccome se volavano!”. Comincia con queste parole il racconto della propria esperienza professionale e di vita di Stefano Pastrovich, genovese, classe 1973, laureato in architettura, con un’esperienza più che decennale nella progettazione, costruzione e nello styling di yacht a motore e barche a vela. I primi passi lo vedono impegnato nella prestigiosa collaborazione, proseguita dal 1996 al 2000, con M. Francis Design Studio, con il quale partecipa allo sviluppo di grandi motoryacht, quali il 57 metri “SenseS” e il “Katana”,  un 70 metri. Contemporaneamente sviluppa progetti propri, come il MY LGB Le Gran Bleu, un 104 metri di un armatore americano, per il quale cura lo styiling degli esterni, il layout degli interni e tutti i dettagli costruttivi. In seguito, dal 2000 al 2004 lavora come chief designer per Wally, progettando personalmente alcune delle perle dei cantieri. Giusto qualche dato, tanto per evidenziare alcune delle tappe salienti di un curriculum di assoluto spessore. Ma riprendiamo il racconto appena cominciato. “La passione per il vento, per il volo a vela, non termina con i progetti dei modellini di quando ero ragazzino. A 18 anni ho cominciato ad andarci davvero sugli alianti. Per passione e anche per spirito di competizione, ho preso parte a diverse competizioni. Ho fatto tesoro di quelle esperienze e posso dire di conoscere abbastanza il vento.” Non sarà dunque un caso se alcuni dei suoi progetti custom più illustri sono proprio degli yacht a vela, quali il 42’ Sly Fun, oltre all’interior design per due Shipman, 63’ e 72’.

Cerchiamo di saperne di più.

Architetto, se qualcuno dicesse che lei è un “innovatore stilistico”, cosa penserebbe?

Semplicemente che non mi considero tale. Non se parliamo in senso strettamente estetico e formale. Ritengo che forma e funzione debbano infatti procedere sempre di pari passo. Non conosco un altro modo di ragionare e di progettare. Detto ciò, è naturale che il primo passo sia sempre rappresentato dal “buttare giù” delle linee, delle forme. Non puoi essere immediatamente vincolato alla funzione.  Man mano che il progetto prende forma, però, devi dargli motivo di esistere. E’ qui che parte un costante dialogo tra forma e funzione: sistemi una per migliorare l’altra e viceversa.Per esempio il progetto  Sly 42’ ha delle soluzioni senza dubbio innovative quali ad esempio, per gli esterni,la sostituzione del classico tavolo centrale con i tavolini laterali sfalsati in altezza, a vantaggio della libertà di movimento sopra coperta. Discorso simile per gli interni che sono progettati tipo loft  con l’eliminazione della suddivisione in cabine, per un’atmosfera conviviale al top quando si hanno amici a bordo, ma comunque sempre intima e raccolta anche per la coppia.

Quale è il suo “modus operandi”?

All’inizio disegno sempre a mano. Parto dall’idea, dalla singola ispirazione. Ma se il primissimo approccio è chiaramente emozionale, per esempio uno spunto dalla natura o un dettaglio architettonico, l’immediato passo successivo è pensare alla sua funzione. Vede, per me il bello assoluto non esiste. C’è un’”idea di bello” che non coincide col singolo sentire. Al contrario, il benessere è un valore decisamente più oggettivo. Per me una barca è bella se ha talmente tanti che dettagli che non si notano. Dove per “dettagli” si intendano sempre particolari ad elevato contenuto in termini di funzionalità. Dunque in fase di progetto è fondamentale la ricerca, attraverso la successione di schizzi dimensionati e prospettive, dei dettagli migliori. Tra gli strumenti che utilizzo vi sono sempre anche i modelli 3D, che non servono soltanto a far veder il volto futuro della barca, ma mostrano tutti i pezzi reali della barca, dimensionati effettivamente. In questi modelli c’è davvero tutto: dalle strutture agli spessori del legno, fino ai cassetti, le maniglie e tutto il resto. E’ uno strumento indispensabile per il progettista che attraverso di esso sa esattamente come procedere nei lavori e per il cliente che può rendersi contro dell’avanzare dei lavori, oltre a poter visionare e scelgiere le molteplici alternative in fatto di materiali, di tessuti, e via discorrendo. A proposito di materiali, ci tengo a dire di amare i materiali grezzi, naturali, spesso accostati a quelli innovativi, carbonio in primis, ma anche fibra di vetro, perfetti interpreti della ricerca di caratteristiche quali leggerezza e funzionalità. Personalmente amo il contatto con la matericità delle superfici.  Per questo amo recarmi in prima  persona a scegliere materiali, tessuti e relativi abbinamenti da proporre all’armatore. Perché per me sentire direttamente il peso delle cose, dei materiali, è altrettanto importante che stare in studio a disegnare. E’ fondamentale che il senso realistico e pratico delle cose diventi parte di sé. In definitiva, per me il design è imprescindibilmente legato con la funzione, con la tecnologia, ovvero con tutto ciò che rappresenta l’aspetto realistico dell’oggetto.

Perché ci tiene a definirsi “architetto” e non “designer”?

Una barca è il perfetto insieme della parte tecnica, di quella di design e della meccanica: l’architettura è l’anello di congiunzione tra tutte le parti ovvero un’insieme ragionato di azioni funzionali al benessere umano. Il design invece è di solito un’azione più emozionale e diretta, non necessariamente finalizzata al farti vivere meglio. Spesso il designer è più simile all’artista che non all’architetto, in genere più vicino alla fase costruttiva rispetto a quella estetica. Io sono un architetto non un designer, ancorché non neghi che ci siano bravi designer che sanno coniugare forma e funzione. Io sono assolutamente dalla parte di chi vuole fare il futuro della nautica non come bella vetrina di oggetti di moda che tra un anno saranno superati, ma di oggetti utili prima di tutto, funzionali, fatti per andare per mare. Per esempio se osserviamo la gamma Wally – mi riferisco ai progetti ai quali ho partecipato attivamente -, può sembrare un manifesto di design futuribile, ma in realtà è tutto frutto della tecnica. Ogni linea, ogni dimensione è calibrata sulla resa tecnica.

Quali sono le sue fonti di ispirazione in termini formali e funzionali?

E’ la natura che ci fornisce le forme più elevate di vita e tecnica. Si pensi ad una pianta, alla naturale disposizione dei rami, alle venature delle foglie, i fiori e le forme dei petali…Sono le forme perfette per assorbire la luce, l’acqua per resistere al vento…Quelle sono le indiscusse opere d’arte! Ci sono delle forme in natura che rappresentano sistemi perfetti per avere ad esempio massimo rendimento utilizzando meno struttura possibile. Ulteriori ambiti di ispirazione personale sono l’antiquariato, l’architettura storica, dove si possono trovare modelli altrettanto stimolanti, proprio perché risultato della perfetta compenetrazione tra il lavoro dell’architetto e quello del costruttore.

Come può essere definito il suo personale stile nel progetto?

Pur essendo un appassionato di antiquariato, posso affermare di non amare il classico eccessivo. Il discorso di base è che quando si affronta un progetto, specie se custom, risulta prioritario avere un buon feeling con il cliente. Quando incontri le prime volte un cliente cerchi di capire, di scoprire che persona è, cosa sente, quali sono i suoi desideri ed anche se il modo di vedere le cose è simile. Apprezzarsi reciprocamente: un aspetto prioritario per l’ottima riuscita di un progetto. Dunque non me la sento di affermare di avere uno stile unico. Oltretutto a me piace il “challenge”, la sfida. E non potrebbe essere altrimenti cimentandomi in progetti custom. Talvolta ti ritrovi a ricominciare da zero, a raddoppiare gli sforzi per giungere al risultato ottimale. Logicamente anche le soddisfazioni sono proporzionali all’impegno profuso. Inoltre per mia natura preferisco dedicarmi ad un numero limitato di cose, ma che veramente mi soddisfino e nelle quali io possa mettere qualcosa di me stesso. Uno degli aspetti positivi del lavorare sul custom è proprio quello di poter fare una barca “bella” e “fatta bene” al tempo stesso.

In tutti i miei progetti seguo personalmente anche la supervisione in cantiere. Fondamentale per la buona riuscita di un progetto nel suo complesso è infatti conoscere il linguaggio costruttivo proprio di un cantiere, così da poter comunicare in maniera efficiente ed efficace.

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